📞 Nel corso di una conversazione intercettata dagli inquirenti, intercorrente tra due soggetti indagati per riciclaggio, uno dei due interlocutori si lascia andare a una confidenza e ammette di essersi occupato in passato di traffico di sostanze stupefacenti. Tale dichiarazione confessoria può essere utilizzata come prova in altro procedimento penale?
🔏 Si tratta di un tema di estrema attualità che ha suscitato un dibattito molto forte all’interno del mondo giuridico.
C’è chi critica l’utilizzo di tali tecniche investigative ritenendole lesive della privacy dei soggetti coinvolti. Si ricorda infatti che la tutela della corrispondenza e della comunicazione è un principio fissato dalla Costituzione (art. 15 Cost.) e tale tutela si giustifica in quanto non può aversi effettiva libertà di comunicazione se non ne è garantita la segretezza.
🕵🏻‍♂️Dall’altra parte, c’è chi ritiene che tale valore possa essere compresso a fronte di esigenze di carattere investigativo dirette alla repressione di reati di particolare allarme sociale.
Sul punto, le recenti tendenze legislative e giurisprudenziali vanno verso una direzione estensiva ritenendo utilizzabili le dichiarazioni qualora si riferiscano a reati molto gravi.
📝 Il riferimento normativo è l’art. 270 c.p.p., norma che nel corso degli anni ha subito diverse modifiche legislative. Nella sua attuale formulazione la norma stabilisce il divieto di utilizzo di risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti particolarmente gravi (per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza).
Nel caso di specie, pertanto, la dichiarazione può costituire certamente un elemento di prova o, al limite, uno spunto investigativo per l’accertamento di quanto affermato sopra.
Post redatto da Avv. Andrea Brenna, studio Perlino di Milano